Paura e legittima difesa. Questioni di «moderame» tra Otto e Novecento
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Edito dalle EUM - Edizioni Università di Macerata - e gestito dall'Università di Macerata, Dipartimento di Giurusprudenza, il Quaderno adotta la Licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International (CC BY-NC-ND 4.0).DOI:
https://doi.org/10.13138/2704-7148/2219Abstract
Tra le «false idee di utilità» Beccaria annoverava «le leggi che proibiscono di portare armi» e quelle «non prevenitrici ma paurose dei delitti». Con la forza dei classici questa pagina scolpisce il circuito tra autodifesa, paura, politica del diritto penale come tratto essenziale della modernità; pone il tema della polarità tra la dimensione pubblica dello ius puniendi dello Stato – vocato a rassicurare le hobbesiane paure reciproche – e jheringhiana lotta privata dei cittadini per difendere la vita e i beni, strettamente intrecciati. Tra Otto e Novecento lo scontro in campo aperto, il duello, lasciava il posto all’intrusione clandestina nella sfera privata; la legittima difesa aveva un senso nel bisogno di un ‘sentirsi sicuri’, soggettivo e collettivo; pertanto l’istituto era costruito dai legislatori con criteri meno rigorosi e proporzionati rispetto al punire pubblico. In ogni sistema giuridico l’eccesso di autotutela trovava però limiti nel Crime of Self Defence; Pellegrino Rossi coglieva la percezione dell’Europa liberale, il «diritto di difesa, legittimo nel suo principio», ha un quid di «quasi brutale nella sua attuazione».