Marginalità e innovazione nella poesia di Benvenuto Cellini / Marginality and innovation in Benvenuto Cellini’s poetry
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DOI:
https://doi.org/10.13138/2039-2362/754Abstract
«Se la mia Boschereccia Phoesia/ non dicie le parole belle e rare,/ gli son più i boschi che le case care,/ et da voi à diversa fantasia»: con questi battaglieri versi, Benvenuto Cellini certifica - all’altezza degli anni Sessanta del Cinquecento - l’incolmabile distanza che separa la propria produzione poetica dalle più squisite prove del petrarchismo contemporaneo, esplicitando al contempo la scelta di una marginalità programmatica rispetto ai circuiti ufficiali della cultura accademica. Attraverso il recupero di istanze proprie della tradizione bernesca, l’ispirazione “boschereccia” che Cellini - poeta “non professo” al pari di Michelangelo - attribuisce ai propri versi testimonia dunque di un’alterità consapevole rispetto alle modalità espressive tipiche della corrente rimeria contemporanea: un’alterità non soltanto dichiarata ma sostanziale, modernamente rilevata da critici avvertiti della poesia cinquecentesca. Non è infatti un caso che, all’interno di due importanti antologie di rimatori del sedicesimo secolo, Guido Davico Bonino abbia segnalato il carattere «singolare e sconcertante» della produzione celliniana, e Giulio Ferroni abbia in modo analogo evidenziato la sua natura «marginale ed eterogenea» rispetto ai filoni dominanti della lirica coeva. Occorre nondimeno specificare quali siano le più significative caratteristiche linguistiche, stilistiche e tematiche che differenziano i testi celliniani dal mare magnum della poesia italiana, e nello specifico fiorentina, del secondo Cinquecento. Una simile precisazione permetterà di confermare un’intuizione decisiva di Carlo Dionisotti, per il quale, nell’epoca che conosce una prorompente fioritura di vocazioni alla scrittura poetica, sono proprio le esperienze letterarie “periferiche”, vissute «nell’ombra, al riparo dagli imperiosi richiami del mercato e della piazza», quelle dotate di maggiore inventiva e originalità.
«Se la mia Boschereccia Phoesia/ non dicie le parole belle e rare, / gli son più i boschi che le case care,/ et da voi à diversa fantasia»: in these brawling verses, Benvenuto Cellini acknowledges – in the Sixties of the Sixteenth century – the unfillable gap between his poetical production and the most exquisite texts of contemporary Petrarchesque poetry, exposing at the same time his choice of a deliberate marginality in the context of the official academic culture. Through the reuse of instances typical of Bernesque tradition, the “woodland” inspiration that Cellini – a nonprofessional poet just like Michelangelo – ascribes to his verses becomes the symbol of his radical distance from the language habitually deployed by the dominant coeval poetry: a distance not only stated but substantial, as many modern scholars have pointed out. It is not surprising, therefore, that – in two important anthologies of Sixteenth-century Italian poets – critics like Guido Davico Bonino or Giulio Ferroni have drawn attention to the singular, disconcerting nature of such a production, marginal and heterogeneous if compared with the prevailing tendencies in contemporary lyrical poetry. It is necessary, though, to identify the most significant linguistic, stylistic and thematic features that separe Cellini’s poems from the mare magnum of late Cinquecento Italian (and especially Florentine) poetry. Such a clarification will allow to corroborate Carlo Dionisotti’s crucial statement, according to which, in an age characterized by an extraordinary diffusion of poetry, the most original literary experiences are those that remained peripheral, in the shadow of the ever-expanding library market.
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